Seminario

            RECUPERO  DI TESTI CLASSICI ATTRAVERSO RECEZIONI IN LINGUE DEL VICINO E
                                         MEDIO ORIENTE



                                         Tito ORLANDI

                        TRADUZIONI DAL GRECO AL COPTO: QUALI E PERCHE'



            Pur  avendo  aderito  con  entusiasmo al cordiale e  gentile  invito  a
            partecipare a questo seminario, nell'accettare ho messo le mani avanti,
            così  come  desidero fare all'inizio del  mio  intervento.  Infatti  il
            contributo che può dare la letteratura in lingua copta alla conoscenza,
            non  che  al  recupero  di  testi  classici  propriamente  detti,  cioè
            dell'antichità  classica,  è  sostanzialmente nullo.  Per quanto se  ne
            possa sapere finora,  e comunque per quanto ne sappia personalmente, si
            possono  in  argomento  indicare  sei soli  casi,  e  si  vedrà  quanto
            deludenti.

            Il primo caso consiste in un corto brano dalla Repubblica di Platone, e
            precisamente  dal  IX libro,  p.  588b1-589b3,  in cui  si  tratta  del
            problema  se  possa rivelarsi conveniente commettere  ingiustizie,  pur
            rimanendo giusti in apparenza (Orlandi 1977; Painchaud 1983).

            Noi  vedremo  come il senso generale del testo greco  è  differente  da
            quello  che  troviamo nella traduzione copta;  ma prima  di  affrontare
            questo problema conviene aggiungere che la traduzione copta si trova in
            uno  dei  codici  del  famoso ritrovamento  detto  di  Nag  Hammadi,  e
            precisamente in quello la cui numerazione definitiva è codice VI.  Esso
            contiene nella prima parte alcune opere di carattere gnostico (1.  Acta
            Petri et XII app.;  2.  Bronte;  3.  Authentikos Logos; 4. Noema magnae
            potentiae);  nella seconda parte alcune opere ermetiche (6. De enneade;
            7. Oratio gratiae; 8. Apocalypsis ex Asclepio).

            Il nostro testo occupa il punto centrale,  ed è possibile che sia stato
            copiato  in  quel  punto proprio a marcare il passaggio fra  esempi  di
            speculazione  gnostica  e ermetica,  che presentavano teorie  in  certi
            punti  assai  differenti.  Quello  che  più  importa  in  questa  sede,
            tuttavia,  è che questa funzione (o qualunque funzione si volesse  fare
            assumere  al  testo)  non  deriva affatto  dall'originale  pensiero  di
            Platone,  ma da un suo vero e proprio travisamento operato ad un  certo
            punto della tradizione.

            Infatti, sebbene sicuramente identificabile con Platone, il testo copto
            presenta  delle  differenze eclatanti.  In un nostro studio le  abbiamo
            elencate minuziosamente (cf. anche la recente edizione di Poirier). Qui
            basterà  dunque  indicare che si tratta non solo di semplici errori  di


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            traduzione (p.es. confusione di HMERVN da HMEROS con quello derivato da
            HMERA);  nè  di varianti nel testo greco (p.es.  DEUR'HKOMEN  diventato
            D'EURHSOMEN  o  ELECJH  diventato  HLEGCJH);   nè  di  inavvertenza  al
            cambiamento degli interlocutori.

            In  realtà sono state introdotte tante piccole  variazioni,  da  mutare
            abilmente  il  significato generale del brano.  Mentre  Platone  voleva
            dimostrare,  attraverso  un  esempio fantastico,  che chi  pensasse  di
            giovare  a  se  stesso fingendosi giusto,  ma in  realtà  facendo  cose
            ingiuste,  si  metterebbe nella stessa situazione di uno che,  avendo a
            che fare con una creatura formata di uomo e di leone,  si  preoccupasse
            di  nutrire  e rafforzare la parte leonina,  purché l'immagine  esterna
            restasse quella di uomo.

            In copto i concetti fondamentali sono invece:  1.  Colui a cui è  stata
            recata  ingiuria  fino in fondo,  ricevette giustamente la  gloria.  2.
            Possiede una potenza che riceve ingiuria,  ed una chi la reca.  3.  Chi
            reca ingiustizia non ne ricava utile,  mentre chi parla nella giustizia
            è utile a se stesso e Dio lo aiuta.

            Le  variazioni introdotte mutano il carattere del testo da filosofico a
            religioso,  accostandolo perfettamente al tipo di problematica trattato
            nei testi precedenti e seguenti, nel codice. La domanda che si può fare
            è  se  questo  sia avvenuto contestualmente  all'opera  di  traduzione,
            oppure  l'operazione  fosse  già stata condotta  in  greco.  In  questo
            secondo caso,  noi avremmo la testimonianza di una manipolazione  tardo
            antica del testo di Platone.

            Il secondo caso di rapporti fra copto e greco classico viene  anch'esso
            da  Nag Hammadi,  dal codice II,  nel trattato detto Exegesis de  anima
            (Scopello 1977;  Sevrin 1983).  In questo trattato si parla ad un certo
            punto  dell'anima  come privata del Logos,  suo sposo,  ed  anelante  a
            tornare  in  sua  compagnia.  Fra i paralleli ad una  tale  situazione,
            insieme col profeta Geremia, è indicato Ulisse nell'Odissea.

            Insieme a semplici allusioni, abbiamo in effetti una vera citazione:

                                                    HN AFRODITH
                  DVC', OTE M'HGAGE KEISE FILHS APO PATRIDOS AIHS
                  PAIDA T'EMHN NOSFISSAMENHN JALAMON TE POSIN TE

                  AFRODITH TENTAhR APATA MMOEI ASNT EBOL MPAYME. TA+R OUOOTS
                  AhIKAAS NSVEI AUV PAhAEI ETNANOUW RRMNhHT NSAEIE.

            Anche  qui,  del  resto,  si nota qualche adattamento  al  tema,  direi
            soprattuto il "condusse" diventato "ingannò", e l'omissione di JALAMON.

            Un  terzo caso lo troviamo nelle opere di Shenute,  che in effetti  fu,
            secondo  la  nostra  ricostruzione  dello  svolgimento  storico   della
            letteratura   copta,   colui  che  fece  penetrare  nella   letteratura
            originale,  non  di  traduzione,  i  modi retorici e  stilistici  della
            contemporanea cultura greca.

            Fra  gli  autori  di cui era al corrente  (forse  attraverso  antologie
            scolastiche) sembra sia stato anche Aristofane,  di cui cita un paio di


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            branni curiosi dagli Uccelli (ed.  Amélineau 1907-14, vol. I, n. XI, p.
            386),  dove  vengono imitati appunto i versi degli uccelli,  talché  il
            contenuto non appare molto significativo.

            Un  quarto  caso  è rappresentato dalla traduzione  di  una  parte  del
            trattato  ermetico  cosiddetto Asclepius (Mahé  1982),  presente  nello
            stesso codice VI da Nag Hammadi di cui abbiamo parlato prima.  La parte
            in  questione riguarda alcune predizioni sulle sventure che coglieranno
            l'Egitto  quando questo abbandonerà la religione dei  padri.  Il  testo
            copto,  così  come  quello latino in nostro possesso,  è  tradotto  dal
            greco.  Il  confronto  delle  due traduzioni  permette  di  ricostruire
            abbastanza  bene il greco perduto,  nella sostanza se non sempre  nella
            forma.

            Un quinto caso è assai più incerto.  Si tratta di alcuni frammenti, che
            troviamo  in due tarde omelie copte (Ps.  Epifanio De Nativitate e  Ps.
            Evodio   De  Passione),   che  potrebbero  provenire  dalla  cosiddetta
            Theosophia  di Tubingen (di cui abbiamo però solo alcuni  estratti),  e
            precisamente  dai libri 8-11,  in cui erano riportati oracoli  e  detti
            pagani in favore di dottrine cristiane (Van den Broek 1978).

            Finalmente  abbiamo  le frequenti allusioni,  in vari testi  copti,  al
            Physiologus  (Kuhner 1985),  di cui però non è detto che  esistesse  la
            traduzione copta integrale di una delle versioni circolanti nella tarda
            antichità.


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            Si  vede  dunque che i rapporti fra letteratura copta e testi  classici
            sono  assai  scarsi.  Diverso invece,  addirittura  opposto  per  varie
            ragioni,  quello con i testi patristici, a cui mi è appunto stato detto
            che  il  tema  si  poteva  ovviamente  ampliare.   E  su  ciò   verterà
            principalmente il mio contributo.

            C'è stato un tempo quando era opinione comune,  e ancora si può  udirla
            ripetuta  acriticamente,  che  la letteratura copta fosse  nella  quasi
            totalità  di traduzione,  in particolare da testi greci.  Dopo  recenti
            studi  (Orlandi 1973),  e soprattutto pubblicazioni di testi,  si  deve
            affermare  che  le  traduzioni  rappresentano  una  buona  parte  della
            letteratura copta, ma sicuramente non più della metà.

            E'  invece da sottolineare il fatto che anche la parte  originale,  per
            motivi che non è qui il caso di esporre, è stata travestita, quasi resa
            clandestina,  per  mezzo di attribuzioni a padri della Chiesa di lingua
            greca.  Per  questo  motivo è importante il lavoro di  distinzione  fra
            testi autentici e falsificazioni più tardive,  che solo potrà alla fine
            lasciarci  chiaramente  comprendere quale peso  percentuale  hanno  sul
            totale le "vere" traduzioni.

            Premesso  che  la distinzione fra testi autentici e falsi è  abbastanza
            agevole,  date le caratteristiche formali e teologiche dei  falsi,  che
            come  abbiamo  accennato  sono  relativamente  tardivi;  sarà  comunque
            opportuno,  trattando delle traduzioni autentiche, fermarsi a quelle di


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            cui il testo greco, pervenuto, ci fornisce una sicurezza totale.

            Rimane  comunque un grave dubbio:  quello cioè di sapere quanto davvero
            conosciamo dei testi copti che circolavano,  diciamo,  attorno al  IV-V
            secolo, se tanti frammenti (ed anche alcuni codici interi) sparsi nelle
            raccolte   di  tutto  il  mondo,   rimangono  ancora  inediti,   talora
            sconosciuti.  Vorrei  fare prima di tutto tre esempi tratti dal  lavoro
            recente dei coptologi.

            Il  bollandista padre Devos era per così dire alla caccia di  frammenti
            di  un codice nel quale era contenuta un'omelia di autore  incerto  sul
            brano  biblico  detto  "il canto della vigna".  Quel codice  aveva  una
            scrittura  di  tipo  abbastanza  particolare,   il  che  facilitava  il
            riconoscimento dei frammenti.  Tuttavia,  nel corso delle sue ricerche,
            egli  si accorse che era esistito un diverso codice,  con  la  medesima
            scrittura,  e  identificò come contenuto di alcuni frammenti di  questo
            secondo codice brani provenienti da omelie di Basilio di Cesare.

            Messosi  su  questa  nuova  traccia,  con  la  collaborazione  di  Enzo
            Lucchesi, finì per ricostruire quanto rimane di un codice contenente un
            intero corpus di omelie basiliane (Lucchesi 1981),  la cui esistenza in
            copto era del tutto ignorata; e precisamente:

                  1. In illud: destruam horrea mea        CPG 2850
                  2. In illud: attende tibi ipsi              2847
                  3. In divites                               2851
                  4. Exhortatio ad Baptisma                   2857
                  5. De fide                                  2859
                  6. In eos qui irascuntur                    2854.

            Come  si  vede,  non è aggiunta da poco al materiale disponibile  delle
            traduzioni copte di testi patristici.

            Un secondo caso è di origine differente. Io stesso stavo lavorando alla
            ricostruzione di opere di Shenute,  l'importante autore originale copto
            di  cui  abbiamo  parlato  anche sopra.  In  questo  caso  lavoravo  su
            materiale  già  edito,  ma la situazione degli studi copti è  tale  che
            spesso  anche il materiale edito giace dimenticato e non  studiato  tal
            quale  come  quello  manoscritto.  Bisogna dire che il  giudizio  sulla
            qualità speculativa delle opere di Shenute era,  fino a poco tempo  fa,
            molto negativo,  ma a torto.  Uno dei miei propositi era appunto quello
            di trovare brani di Shenute teologicamente interessanti.

            Quando  mi imbattei in un lungo frammento in cui si commentava il libro
            biblico  dell'Ecclesiaste,   il  cui  contenuto  è  esclusivamente   di
            carattere  filosofico  e non moraleggiante,  mi misi ad esaminarlo  con
            attenzione,  pensando che potesse essere un documento importante per le
            mie  ricerche.  Uno dei primi passi fu naturalmente di  confrontare  il
            testo con altri commentarii noti, per notarne analogie e differenze. Fu
            così che mi accorsi che il testo, per tanto tempo attribuito a Shenute,
            altro  non  era  che  la  traduzione fedele  e  completa  del  commento
            all'Ecclesiaste di Gregorio di Nissa (Orlandi 1981).

            Per la cronaca posso dire che ho poi effettivamente trovato altri brani
            teologici  interessanti genuini di Shenute;  quello che qui interessa è


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            tuttavia  sottolineare  una  certa  casualità  per  la  quale  è  stato
            riconosiuto  un testo di traduizione,  oltretutto  già  pubblicato,  di
            tanta  importanza  per  la questione generale  delle  traduzioni,  come
            vedremo.

            Citeremo  finalmente  un  terzo e diverso caso di  ritrovamento  di  un
            testo.  René-Georges  Coquin  stava  lavorando ai frammenti  copti  che
            stanno  dalla  fine del secolo scorso  nel  deposito  dell'I.F.A.O.  al
            Cairo,  quando  si  imbatté  in un lungo frammento di  contenuto  assai
            interessante,  perché trattava dell'immortalità dell'anima e  argomenti
            affini, cosa inusuale per la letteratura copta.

            Approfondendo  le  ricerche,  non gli fu difficile riconoscere  che  si
            trattava  del trattato di Gregorio di Nissa De anima et  resurrectione.
            Guidato  da  questo  primo riconoscimento,  fu in grado (di  nuovo  con
            l'aiuto  di Enzo Lucchesi) di aggiungere altri frammenti  dello  stesso
            codice,  conservati  in altre raccolte (Coquin 1981),  e  talora  anche
            editi con proposte di attribuzione errate, per es. a Ippolito di Roma.

            Si dimostrava,  in questo caso,  come opere importanti possano  giacere
            ignorate  in  collezioni in cui per diversi motivi gli  studiosi  hanno
            difficile accesso.

            Tutti  e  tre i casi ci portano ad un medesimo problema:  è  possibile,
            basandosi  sulla  documentazione di cui  oggi  disponiamo,  tentare  di
            tracciare  un  panorama  storico e critico delle  traduzioni  di  testi
            patristici in copto,  della loro consistenza,  della loro evoluzione, e
            delle  loro  caratteristiche?  Quanto  abbiamo mostrato  porterebbe  in
            verità a concordare sul sostanziale scetticismo di molti, che affermano
            essere  del  tutto  prematuro tentare una  sintesi;  e  a  limitarsi  a
            lanciare appelli, sia pure provvisti di interessanti osservazioni, come
            quello recente di Leslie Mac Coull (1984).

            A nostro avviso è invece sbagliato continuare,  pur con queste ragioni,
            sulla strada percorsa fino ad oggi,  con rare eccezioni.  In effetti la
            situazione attuale è caratterizzata da tre elementi.

            1.  L'interesse  sollevato  da questi testi (come da  quelli  originali
            copti)   è   prevalentemente   linguistico.   Essi  sono   visti   come
            testimonianza  della situazione e dell'evoluzione della  lingua  copta,
            spesso  in  relazione  con i precedenti stadi  della  lingua  egiziana,
            piuttosto che come testimonianze di cultura religiosa.  Per questo sono
            assai importanti iniziative di ricerca, come questa in cui si inserisce
            il  presente contributo,  che contribuiscono a inquadrare le traduzioni
            in copto nel loro ambito congeniale, quello della letteratura cristiana
            antica.

            2. Una conseguenza della posizione indicata sopra è il disinteresse per
            il contenuto delle traduzioni,  dal momento che di esse viene esaminata
            esclusivamente  la forma linguistica.  Ma lo stesso avviene per i  rari
            casi  in  cui intervenga un punto di vista filologico.  Questo  infatti
            studia  il  rapporto  tra testo originale e  traduzione  con  interesse
            unicamente al contenuto del testo originale,  senza chiedersi che  cosa
            rappresentasse  il  contenuto della traduzione per l'ambiente che  l'ha
            prodotta.


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            In  modo simile potremo considerare l'interesse puramente erudito,  che
            si  preoccupa di identificare il maggior numero possibile di  testi,  e
            dei relativi frammenti, senza voler compiere passi ulteriori di sintesi
            storica.  Un tale lavoro è certamente difficile e meritorio,  ma spesso
            serve  di  pretesto  per rimandare alle calende  greche  il  lavoro  di
            sintesi,  che  con  i suoi pericoli è tuttavia il vero fine che  questo
            tipo di studi si propone.

            3.  Ulteriore  conseguenza di tutto ciò è un disinteresse per lo studio
            storico  della  letteratura  copta.  Raramente  ci  si  chiede  se  sia
            possibile  dalla  documentazione di cui  disponiamo,  ivi  comprese  le
            traduzioni   dal  greco,   riconoscere  una  linea  di  sviluppo  della
            letteratura copta,  che consenta di stabilire come le traduzioni, da un
            lato,   e  la  produzione  di  opere  originali,   dall'altro,  abbiano
            interagito  con la situazione storica della Chiesa  egiziana,  prima  e
            dopo  Calcedonia,  dando  luogo  ad un ambiente culturale  con  proprie
            caratteristiche ed una propria evoluzione.

            Sulla  sostanziale  negatività di questi tre elementi  penso  siano  in
            teoria tutti d'accordo. Ma se, come dicevamo, si rimane ancorati ad una
            posizione   di  scetticismo  relativamente  alla  nostra  capacità   di
            superarli,  nell'attesa  e nel timore che nuovi documenti costringano a
            cambiare una sistemazione storica tentata e proposta,  difficilmente si
            potranno fare passi avanti.  Mentre a me sembra che, giunti al punto in
            cui siamo, passi avanti si possano e si debbano fare.

            Si  tratta  in sostanza di prendere la documentazione così come  ci  si
            presenta  oggi,  e  studiarla in quanto tale.  Nessun lavoro  in  campo
            storico sarà mai definitivo;  e se in futuro qualche nuovo ritrovamento
            provocherà  un cambiamento di orizzonte,  almeno sarà pronto un  quadro
            entro il quale recepirlo immediatamente, e valutarlo per quel che porta
            di nuovo.

            Perché  in ogni modo la documentazione di cui oggi disponiamo  presenta
            alcune  caratteristiche  individuate ed  individuabili,  purché  la  si
            consideri  in  maniera globale,  senza fermarsi a questo o  quel  testo
            particolare.   Nell'ambito  del  tema  proposto  da  questo  seminario,
            esamineremo dunque globalmente le opere di traduzione.

            Due  sono  i punti focali di questa indagine,  volta a  determinare  le
            ragioni  che  hanno presieduto alla scelta dei testi  da  tradurre,  in
            relazione  con lo sviluppo e le necessità dell'ambiente che ha  operato
            questa  scelta.  Il  primo è rappresentato dai testi che  ci  sono;  il
            secondo da quelli che non ci sono. Vedremo che questo secondo punto non
            è meno interessante.

            Per quanto riguarda il primo punto,  due problemi assai delicati  sono:
            1.  La  separazione fra i testi realmente di traduzione,  e quelli  che
            sono presentati dai manoscritti come tali,  ma sono un prodotto tardivo
            di  scuole  letterarie  copte (per questo cf.  le  nostre  proposte  di
            soluzione in Orlandi 1973).

            2.  La cronologia delle traduzioni, che appaiono condotte in un arco di
            tempo abbastanza vasto,  con caratteristiche diverse (cf. per questo le


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            soluzoni proposte in Orlandi 1984. A questo contributo rimandiamo anche
            per la bibliografia specifica sugli autori trattati in basso, così come
            alla Coptic Bibliography,  pubblicata annualmente a Roma dal Corpus dei
            Manoscritti Copti Letterari).

            Dati  dunque per risolti,  sia pure con riserva,  i problemi relativi a
            quei  due  punti,  vediamo  come ci si  presenta  la  situazione.  Sarà
            opportuno  tenere  separati i due periodi principali  dell'attività  di
            traduzione  dei  copti,  che possono essere così  collocati.  Un  primo
            periodo  "antico",  collocabile  fra III e IV  secolo;  ed  un  secondo
            periodo  "classico" (tenuto conto anche dello sviluppo  della  lingua),
            collocabile fra IV e prima metà del VI secolo.  Il punto di separazione
            è  dato probabilmente dalla sistemazione teologica che è avvenuta nella
            Chiesa egiziana all'epoca della controversia origenista.

            Fanno  parte delle traduzioni del primo periodo,  prima di tutto quella
            ovvia della Bibbia (per il Nuovo Testamento cf.  Metzger 1977;  nessuno
            studio generale sull'Antico Testamento).  Si dovrà solo tener  presente
            che il lavoro, che ci si presenta molto complesso, dati i vari dialetti
            etc.,  avrà  una  sua appendice come "normalizzazione" del testo  (V-VI
            sec.).  Meno  ovvia è la traduzione dei testi gnostici e poi  manichei,
            che  ci  testimoniano  la  varietà  culturale  che  caratterizzava   il
            primitivo ambiente "copto"

            Abbiamo  poi almeno alcune delle traduzioni di testi apocrifi  (Orlandi
            1983).  Secondo  le nostre indagini,  sarebbero particolarmente antiche
            quelle  dell'Ascensio Isaiae e dell'Apocalypsis Eliae,  per  l'A.T.;  e
            quelle degli Acta Pauli,  degli Acta Petri,  dell'Epistula Apostolorum,
            per il N.T.

            Anche  alcuni  Padri  Apostolici  furono  tradotti  presto  (IV  sec.):
            pensiamo  al  Pastor,  all'ep.  Clementis e alla  Didaché.  Meno  certo
            Ignazio; nulla sembra pervenuto di Policarpo.

            Fra  il materiale omiletico,  è fondamentale notare come si trovino due
            omelie  di  Melitone:  De Pascha,  e De anima et  corpore.  Esse  erano
            probabilmente fra i caposaldi dell'esegesi "asiatica";  ed allo  stesso
            ambiente  dovrebbe  risalire  la  possibilmente  antica  traduzione  di
            un'omelia  anonima  De templo Salomonis,  come si  ricava  da  elementi
            teologici interni.

            Si  nota  dunque  in  questo  primo periodo,  da  una  lato  una  certa
            completezza  di  materiale.  I testi più importanti  della  cristianità
            erano  rappresentati  almeno nei loro  generi  letterari  fondamentali:
            Bibbia,  Apocrifi,  Padri apostolici,  prime omelie. Dall'altro lato (e
            parallelamente,  come  è naturale) si nota una varietà di  impostazione
            culturale:  troviamo  testi  di  scuola alessandrina e anche  testi  di
            scuola  asiatica;  testi  "ortodossi"  e  testi  gnosticizzanti;  testi
            cristiani e testi manichei.

            Nel  secondo  periodo  sembra invece che ci troviamo di  fronte  a  due
            fenomeni,   anch'essi   del  resto   naturalmente   complementari:   un
            appiattimento teologico (o meglio esegetico; di teologia vera e propria
            non  si potrà più parlare);  una scelta molto parziale fra il materiale
            offerto  dalla  tradizione  greca,   che  in  questo  periodo   diventa


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            estremamente ricca.

            Vediamo dunque quello che c'è,  per poi venire a qualche considerazione
            su  quello  che  non c'è.  In particolare,  poiché ci  soffermeremo  in
            seguito  sulle opere dei Padri,  qui indicheremo il  materiale  diciamo
            così "non (o meno) personalizzato".

            In  primo  luogo  la  Storia Ecclesiastica,  di cui  troviamo  un  solo
            esempio,  oltretutto  di genere composito.  Infatti,  escluse le  opere
            classiche di Socrate,  Sozomeno e Teodoreto, quella che diventerà nella
            tradizione copta LA storia ecclesiastica per eccellenza,  è composta di
            due parti.  La prima consiste nella traduzione rimaneggiata dei primi 7
            libri  di  Eusebio;  la  seconda  di  una  cronaca  redatta  in  greco,
            probabilmente  al  tempo  di Timoteo II  (ca.  470)  sulla  base  della
            documentazione esistente presso il patriarcato di Alessandria.

            La  qualità  della  seconda parte è nettamente scadente,  anche  se  si
            trovano molti spunti interessanti.  La prima parte, pervenuta purtroppo
            molto  frammentaria,  sembra  possa offrire  una  nuova  documentazione
            relativa alla doppia edizione della Storia di Eusebio,  e comunque alla
            sua ricezione e tradizione in ambiente egiziano.

            Anche  per quanto riguarda le raccolte di Canoni e di Atti di  Concilii
            le   traduzoni  copte  offrono  un  materiale  essenziale,   oltretutto
            fortemente caratterizzato in senso egiziano.  Abbiamo così le  raccolte
            dei Canones Ecclesiastici,  comuni alla tradizione "internazionale" più
            classica;  e  vicino  ad  essi  quelle dei Canones  Basilii  e  Canones
            Athanasii,  opere probabilmente pseudepigrafe di ambiente egiziano.  Di
            simile  origine  (sempre comunque in greco) devono essere  le  raccolte
            propriamente conciliari:  una per Nicea,  una per Efeso (con narrazioni
            veramente particolari), ed una per Calcedonia.

            Le  traduzioni  di  testi monastici sono anch'esse  rappresentative  di
            tutto l'arco delle possibilità,  sebbene non particolarmente  numerose,
            come ci si potrebbe aspettare.  Troviamo le Vite di Pacomio; la Vita di
            Antonio  (di Atanasio);  le Lettere di Antonio;  le Vite di Paolo e  di
            Ilarione di Gerolamo;  gli Apophthegmata Patrum;  Isaia di  Sceti;  una
            vita di Giovanni di Licopoli tratta in parte dall'Historia Lausiaca, ma
            con aggiunte post-calcedonensi; la Vita di Simeone Stilita.

            Un   settore  particolarmente  ricco  è  quello  delle  traduzioni  più
            propriamente  agiografiche.  In questo caso è certo che il copto ci  ha
            tramandato testi greci non più esistenti nella versione  originale,  ma
            proprio  per  questo diventa delicato distinguere le  traduzioni  dalla
            produzione  che sul loro esempio venne eseguita dai copti stessi  nella
            propria lingua.

            Sulla  base  di  elementi  interni  ed  esterni,  pensiamo  che  quella
            distinzione  si possa fare;  ed in base ad essa possiamo tracciare  una
            lista,  sia  pure precaria ed incompleta.  Incontriamo dunque in  primo
            luogo dei classici dell'agiografia più antica:  le Passioni di Colluto,
            Psote,  Pietro di Alessandria;  quindi alcune Passioni collegate in una
            specie di ciclo costruito intorno al prefetto Ariano:  Ascla, Filemone,
            Pantaleone, Herai, Dios, Epimaco, Coore e lo stesso Ariano.



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            Possiamo  riconoscere  anche  un  ciclo  di  martiri  giulianei:  Giuda
            Ciriaco,  Eusignio,  Mercurio  e  il suo miracolo;  ed uno  di  martiri
            monaci: Papnute di Dendera, Panine e Paneu, Pamin, Pamun e Sarmata.

            Come  si  vede,  la  scelta è fatta tenendo  soprattutto  presenti  gli
            interessi  della  Chiesa  egiziana,  ma non  mancano  escursioni  negli
            ambienti della cristianità internazionale e non regionale.

            Un  posto a parte va dato agli Apocrifi,  per i quali però è spesso più
            lecito  parlare di ispirazione che di traduzione.  Parliamo  qui  degli
            apocrifi  che vengono composti in epoca più tardiva,  rispetto a quella
            antica di cui abbiamo già parlato.  Fra i classici,  di cui è sicuro un
            originale  greco corrispondente,  vi sono solo gli Acta Pilati (Vangelo
            di Nicodemo), e la Visio Pauli.

            I  testi  che sono stati ampiamente manipolati nella  tradizione  copta
            sono invece numerosi:  tutta l'ampia raccolta degli Atti Apocrifi degli
            Apostoli,  in  varie versioni più o meno ampie;  la Storia di  Giuseppe
            Falegname;  il  Transitus  Mariae (in due  versioni);  l'Apocalisse  di
            Bartolomeo;  l'Apocrifo di Geremia;  i Testamenti di Abramo,  Isacco  e
            Giacobbe.

            Si  tratta  in  questo caso di una tradizione in  continua  crescita  e
            manipolazione,  che  ci testimonia della fortuna del genere  letterario
            senza  che  sia possibile rendersi esattamente conto dello stato  delle
            fonti greche da cui questa tradizione ha preso origine.

            Tutto sommato mi sembra che fin qui il quadro sia quello di una cultura
            non ricchissima, ma ben equilibrata nelle sue scelte e dunque nelle sue
            esigenze.  Un  riguardo particolare era dato a ciò che più direttamente
            poteva  interessare  l'Egitto,  ma sempre nell'ambito di  una  comunità
            culturale  più  ampia.  I caratteri della cultura  copta  non  appaiono
            diversi nella sostanza,  ma semmai solo nella quantità, da quelli della
            cultura greco-internazionale, siriaca, latina, etc.



            Ben  diversa si presenta la situazione,  quando passiamo alle opere dei
            grandi  autori  della Patristica greca.  In questo caso sono assai  più
            impressionanti le assenze delle presenze. Ci libereremo subito dei casi
            di  Clemente  alessandrino,   Origene,   Didimo  cieco.   Il  primo   è
            probabilmente  troppo antico,  anche se la sua assenza contrasta con la
            presenza massiccia (in un certo senso) di Melitone di Sardi.  Gli altri
            due, pur grandi rappresentanti della scuola alessandrina, saranno stati
            spazzati via dalla crisi appunto origenistica fra la fine del IV e il V
            secolo.  E  tuttavia  si  deve ricordare che  la  tradizione  copta  ha
            mantenuto vivo il nome il nome (e qualche estratto) di Evagrio, e anche
            mantenuto  qualche opera di scuola evagriana (Agatonico di Tarso).  Non
            sarà un caso che Evagrio fu monaco, a differenza degli altri due.

            A  noi  interessano  qui  soprattutto quelle  personalità  di  cui  pur
            qualcosa  è  stato  tradotto.  E' su questi nomi  che  deve  appuntarsi
            l'indagine che stiamo qui tentando.

            Attribuita  ad Atanasio troviamo qualche omelia,  che può essere  forse


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            autentica;  ma,  si badi,  nulla di sicuro. Sembra che fosse tramandato
            per  intero il commento ai Salmi.  Ma sicuramente assenti sono tutte le
            grandi apologie storiche;  e le omeli a lui attribuite dalla tradizione
            greca,  che  pure  non  sono sicure.  Assenti  sono  anche  i  trattati
            teologici contro gli ariani. Abbiamo invece la raccolta delle Epistulae
            Festales,  che probabilmente sono da inquadrare insieme con le raccolte
            canoniche, che abbiamo visto essere tenute in gran conto dai traduttori
            copti.  Le  lettere  alle Vergini rappresentano tuttora un problema  di
            attribuzione.

            Migliore è la situazione di Basilio;  ma anche qui,  contro la presenza
            di una decina di omelie autentiche, di carattere essenzialmente morale,
            registriamo  l'assenza di tutti i trattati  dogmatici;  della  raccolta
            delle  Lettere;  delle  grandi  omelie esegetiche sull'Exemeron  e  sui
            Salmi. Troviamo invece i testi di interesse monastico, cioè le raccolte
            di Regole.

            La situazione di Teofilo è disperata nella tradizione greca;  ma non  è
            migliore in quella copta. Il suo nome è importantissimo presso i copti,
            ma ciò gli ha fruttato l'attribuzione di un ciclo tardivo dedicato alla
            distruzione  di  templi  pagani e alla costruzione di  Chiese;  non  la
            traduzione di omelie che possano essere considerate  autentiche,  salvo
            forse soltanto due.  E' pervenuta la lettera festale del 401 contro gli
            Orgenisti,  che  sembra facesse parte di un appostio dossier,  e dunque
            staccata dalla raccolta ufficiale, perduta in copto come in greco.

            Gregorio  di  Nazianzo non aveva speciali meriti per  essere  divulgato
            presso  i copti.  E' logico tuttavia trovare il suo encomio in onore di
            Atanasio,  e si trovano poi soltanto: In Basilium, De Pascha (Hom. 45),
            De amore erga pauperes (Hom.  14);  tutte le altre omelie,  i poemi, le
            lettere, mancano all'appello.

            Di  Epifanio  di  Salamina erano stati tradotti  l'Ancoratus  e  il  De
            gemmis; non risulta tradotto il Panarion nè altre opere.

            Di Amfilochio di Iconio abbiamo in copto un'omelia, che probabilmente è
            autentica,  ma  manca nella tradizone greca,  e del resto  non  riveste
            grande significato. E' il frutto della tipica esegesi "teatrale", i cui
            meriti sono essenzialmente letterari.

            Di  Cirillo  di  Alessandria abbiamo l'Epilysis in XII Capitula  e  gli
            Scholia de incarnatione;  ma tramandati insieme con raccolte canoniche.
            Inoltre alcune lettere inviate a Shenute. Nulla invece dei grandi cicli
            esegetici,  delle  opere  dogmatiche,  del Contra Iulianum che  pure  è
            menzionato dalla Historia Ecclesiastica di cui abbiamo parlato sopra.

            Di Proclo di Costantinopoli,  conosciuto evidentemente come sostenitore
            di Cirillo ad Efeso, sono state tramandate non più di un paio di omelie
            comprese  nella raccolta greca,  di contenuto  dogmatico;  ed  un'altra
            inserita però negli Atti di Efeso.

            Tre  casi particolari sono costituiti da Gregorio  di  Nissa,  Giovanni
            Crisostomo, Severo di Antiochia. Del primo abbiamo già accennato sopra,
            e  ci  sembra in effetti l'unico caso in cui ci si presenta un  vero  e
            proprio   corpus  di  opere,   più  ancora  che  teologiche,   di  tipo


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            speculativo.  Ci  riferiamo  alle traduzioni del Dialogus de  anima  et
            resurrectione  e a quella del commento all'Ecclesiaste.  Non  è  molto,
            rispetto  a tutta l'opera del Nisseno,  ma sembra comunque  eccezionale
            rispetto al materiale degli altri Padri passato in rivista sopra.

            Il  caso sembra tanto isolato,  che ci ha indotto ad emettere l'ipotesi
            che   si   possa  trattare  del  lavoro  di  una   particolare   scuola
            tendenzialmente  origenista,  ma  prudentemente al  riparo  dei  rigori
            formali del patriarcato,  lavoro che ha potuto trovare una collocazione
            nel proseguimento della tradizione copta.

            Giovanni  Crisostomo ha invece goduto,  oltretutto a dispetto dei  suoi
            noti rapporti con Teofilo, di una fama e di un rispetto inusitati nella
            tradizione  copta;  e  questo  gli è valso una quantità  di  traduzioni
            (oltre che di attribuzioni e ricostruzioni tardive, come del resto agli
            altri) che si può definire imponente.  E' vero che sono  assenti,  come
            tali,  le  raccolte di omelie esegetiche (tranne il caso di In  Ep.  ad
            Hebr.,   che  esamineremo  sotto),  quella  famosa  De  statuis,  molti
            trattati,  e  la raccolta delle Lettere.  In compenso abbiamo  parecchi
            trattati giovanili di carattere monastico e una cinquantina di omelie.

            La  predilezione  sembra dovuta a ragioni di stile letterario e non  di
            contenuto  speculativo (questo si vede dalla scelta delle  omelie).  Si
            può  forse aggiungere una propensione copta verso  Giovanni  Crisostomo
            come   campione   di  una  polemica  contro  l'autorità   centrale   di
            Costantinopoli,   che  richiama  la  lotta  dei  copti  per  la  libera
            espressione delle loro convinzioni dottrinali.

            Il  caso di Severo è importante,  perché denota invece una predilezione
            che  non può non essere dovuta,  più che allo  stile  letterario,  alla
            considerazione  che  egli godette in Egitto come uno dei  grandi  padri
            della  dottrina  anti-calcedonense.  Per questo molte delle sue  omelie
            sono  state  tradotte,  anche  se  non  sembrano  presenti  i  trattati
            propriamente dogmatici.

            Prima  di  cercare di trarre alcune  conclusioni  dalla  documentazione
            presentata, desideriamo presentare due casi che ci sembrano emblematici
            di  interventi  redazionali sui testi,  mentre erano tradotti  o  anche
            (forse) dopo che lo sono stati.

            L'omelia  di  Gregorio di Nissa detta De divinitate Filii  et  Spiritus
            Sancti  prende  spunto  dall'esegesi  del  brano  biblico  relativo  al
            sacirifcio  di Isacco,  per dimostrare la distinzione reale del Padre e
            del Figlio e la divinità di quest'ultimo.  In copto esiste il testo  di
            un'omelia,  attribuita  a Gregorio di Nazianzo,  il quale è formato da:
            un'introduzione omiletica;  la traduzione di una parte del testo  greco
            del De divinitate Filii et Spiritus Sancti di Gregorio di Nissa (PG 46,
            col.  565B-572D  contro  col.  553-576,  cioè  7 colonne  su  21);  una
            conclusione omiletica.

            Con questo riadattamento, il copto evita tutta la parte speculativa del
            testo del Nisseno, e l'omelia diventa un'esegesi puramente esortatoria,
            diretta  a  richiamare  i genitori ed i figli ai rispettivi  doveri  di
            obbedienza.



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            E' in qualche modo analogo il caso che presenta un grosso codice (forse
            300 pagine; ma pervenuto frammentario) interamente dedicato alle omelie
            esegetiche di Giovanni Crisostomo sull'Epistola agli  Ebrei.  L'analisi
            del codice deve essere ancora approfondita,  ma è possibile dire alcune
            cose.

            La  divisione  delle  omelie non corrisponde a quella che  troviamo  in
            greco.  Le omelie erano presentate come isolate una dall'altra,  ed  in
            effetti,  se  non  ci  fosse  il testo  greco,  non  sarebbe  possibile
            identificarle  come  i brani di una  raccolta  esegetica  unitaria.  Il
            titolo si riferisce soltanto agli argomenti morali trattati in ciascuna
            "omelia".  Le  omelie  erano composte di excerpta scelti  con  riguardo
            appunto  a  quegli  argomenti,  e senza tenere  conto  della  originale
            destinazione dell'opera crisostomica.


                                             * * *


            Venendo  ora alle conclusioni,  occorre premettere che esse  dovrebbero
            essere viste alla luce del problema più generale della trasmissione dei
            testi patristici già al loro tempo, su cui ha opportunamente richiamato
            l'attenzione  il  Gribomont,  in un importante articolo,  ma che non  è
            stato ancora sufficientemente approfondito.

            Quanto,  del  patrimonio  che  ci è rimasto,  è  testimonianza  di  una
            diffusione  abbastanza larga fra i cristiani anche di media cultura;  e
            quanto invece è solo il retaggio di pochi ambienti di alta cultura e di
            particolari  interessi?  Si  comprende che dalla  soluzione  di  questo
            problema  dipende  l'apprezzamento  che possiamo  fare  dell'opera  dei
            traduttori  copti,  perché  essi  evidentemente si  rivolgevano  ad  un
            pubblico classificabile nel primo tipo, e non già del secondo.

            Rimanendo  dunque in questo ambito,  si possono tuttavia notare  alcune
            caratteristiche che appaiono tipicamente "copte",  in quanto differenti
            da quelle della cultura egiziana in lingua greca.

            1.  Inclinazione per le raccolte "ufficiali",  o destinate a  diventare
            tali.  Questa  inclinazione  funziona sia nel senso di tradurre  alcuni
            testi (p.es.  l'Historia Ecclesiastica, alcuni corpora di Canones, atti
            di  concilii),  sia però anche nel senso che alcune di quelle  raccolte
            tendono ad eliminare altre concorrenti.

            2. Influenza dell'ambiente monastico. Questo si vede nella scelta delle
            opere  in  sè  (quelle  indirizzate a  monaci  sembrano  incontrare  la
            preferenza dei traduttori),  ma anche nella scelta dei temi, per cui ci
            sembra  di  notare  una certa preferenza  per  le  omelie  "adattabili"
            all'ambiente monastico.

            3.  Netto  rifiuto delle opere di carattere speculativo e documentario.
            Questo  è il punto più delicato,  che ha fatto spesso  esprimere  sulla
            letteratura  copta  in  generale,  e sull'ambiente culturale  che  essa
            esprime, giudizi poco lusinghieri.

            Ora,  il  giudizio  sulla letteratura in sè ci sembra  meno  rilevante.


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            Importa  invece  mettere  bene in luce che la  letteratura  copta  deve
            essere vista solo come UNA PARTE dell'espressione degli ambienti da cui
            è  stata  prodotta.  Secondo  noi quegli  ambienti  sono  sempre  stati
            fondamentalmente  BILINGUI,  per cui la scelta delle opere da  tradurre
            obbediva non a criteri soggettivi, ma oggettivi.

            Ci  spieghiamo.  In quello che abbiamo distinto come "secondo  periodo"
            dell'attività  di  traduzione,  è probabile che gli ambienti  culturale
            egiziani  abbiano  operato  una  distinzione  fra  opere  che  era  più
            opportuno  mantenere in greco,  probabilmente perché non destinabili  a
            diffusione  ampia;  ed opere che erano tradotte in copto per avere  una
            buona diffusione PROPRIO in tale lingua.  Tale distinzione trova il suo
            criterio proprio sul carattere speculativo o morale (o canonico)  degli
            scritti in questione.

            E'   anche   possibile  che  le  opere  speculative  fossero   lasciate
            volutamente  nelle  mani  dei più esperti,  perché dopo  Calcedonia  la
            letteratura  precedente  era  vista  nel  complesso  della   tradizione
            internazionale in lingua greca, e non dava quindi affidamento dal punto
            di vista dogmatico.  Questo spiegherebbe, p.es., il diverso trattamento
            fra lo stesso Cirillo e Severo di Antiochia.

            Si   noti   che,   quando  la  lingua  araba  soppianterà   in   Egitto
            definitivamente,  anche  se lentamente,  sia il copto sia il greco,  si
            ritroveranno  nella letteratura araba cristiana di nuovo  perfettamente
            appaiate sia le opere speculative,  che non erano passate attraverso la
            tradizione in lingua copta, sia le altre, delle quali l'originale greco
            era spesso addirittura scomparso.





























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