CONVEGNO:

            SPIRITUALITA'  DEL  LAVORO  NELLA CATECHESI DEI PADRI  DEL  III-IV
                                          SECOLO


                                       TITO ORLANDI

                  Il lavoro nella primitiva letteratura monastica copta.



            Presentazione.

                  Prima  di affrontare il tema che mi propongo di trattare,  è
            opportuno premettere alcune precisazioni,  di cui dovrebbe  sempre
            tener  conto chi sfrutta la documentazione copta in vista di  temi
            generali (Orlandi 1984(1), Introduzione).

            Per  "letteratura monastica copta" è facile intendere quella parte
            della letteratura monastica che ci è pervenuta in lingua copta. Ma
            che significato avrebbe trattare questa letteratura come se  fosse
            isolata   o   comunque   autonoma  rispetto   alla   contemporanea
            letteratura  in  lingua greca?

            L'ambiente monastico egiziano è spiccatamente bilingue; ed inoltre
            parecchie  opere  che oggi sono conservate soltanto in copto  sono
            delle  traduzioni  di testi greci.  Dunque si dovrà  sempre  tener
            presente  piuttosto un ambiente monastico egiziano (questo sì  con
            caratteristiche  individuali),   a  sua  volta  in  relazione  con
            l'ambiente monastico internazionale e con il più vasto mondo della
            cultura cristiana.

            Tale  ambiente ha prodotto una sua letteratura,  che ci fornirà  i
            lumi  che  qui chiediamo,  relativi alla spiritualità del  lavoro.
            Questa  letteratura  potrà essere indifferentemente  (entro  certi
            limiti di cui parleremo) in lingua greca ed in lingua copta,  onde
            le opere nell'una e nell'altra lingua riceveranno mutualmente  dei
            chiarimenti.

            Mi  sembra che solo così si cominci a delineare il contributo  che
            il  coptologo può dare al tema proposto.  E' chiaro che  siamo  di
            fronte  ad una separazione,  giustificabile praticamente anche  se
            non teoricamente, di specializzazione di ricerca. E' difficile che
            le  qualifiche  di patrologo greco e di coptologo  possano  andare
            insieme;  ed  il  coptologo  è chiamato a dare il  suo  contributo
            collaterale,  senza invasione di campi ma con coscienza della loro
            interconnessione.

            Si  tratta  di  una  collaborazione necessaria  sotto  il  profilo


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            operativo  nell'organizzazione degli studi come oggi si  è  venuta
            formando.  Essa  tuttavia apre la strada ad una considerazione più
            pertinente   dal  punto  di  vista   dell'oggetto   studiato.   La
            suddivisione  fra greco e copto rispecchia anche una  suddivisione
            di tradizione,  sia manoscritta sia culturale,  che posteriormente
            al  V  secolo  si  è venuta attuando per un  intreccio  di  motivi
            teologici, spirituali, nazionali, politico-ecclesiastici.

            Per   questo   la  tradizione  specificamente  copto-egiziana   ci
            restituisce  talora opere di carattere parzialmente  differente  a
            quelle  della  tradizione greca,  anche se in origine  tali  opere
            appartenevano ad un medesimo ambiente, e forse non avevano neppure
            una  divisione di lingua.  Ne consegue che le opere oggi in lingua
            copta  possono  contribuire  a  dare  una  migliore  e  più  ampia
            conoscenza  di quell'ambiente,  rispetto ad opere che  sono  state
            tramandate  nell'ambito  della tradizione greca forse a  causa  di
            alcune   soltanto   delle   caratteristiche,    che   maggiormente
            interessavano quella tradizione.

            Per fare subito un esempio concreto, è noto come la raccolta degli
            Apophthegmata Patrum venga utilizzata in maniera preponderante,  e            ____________________
            talora  addirittura esclusiva,  per le ricostruzioni dell'ambiente
            monastico egiziano. Ebbene, anche senza accedere a recenti ipotesi
            sull'origine  non  egiziana  della raccolta  come  tale  (Regnault
            1981),  sarebbe comunque opportuno che si cercasse di fare  sempre
            una  critica  preliminare  all'utilizzazione,  per  domandarsi  se
            realmente  tutto quanto si trova in quella raccolta cosituisca  un
            documento obiettivo ed esaustivo sulla situazione egiziana.

            E'  interessante notare,  a questo proposito,  che simili  cautele
            sono  assai più presenti agli studiosi,  quando essi utilizzano la
            documentazione  di opere come l'Historia  Lausiaca,  o  l'Historia
            Monachorum,  o le Collationes di Cassiano,  più scopertamente,  ma
            forse  non  maggiormente "internazionali" nella loro concezione  e
            redazione.

            Da  questo  stesso  punto  di vista,  ma con  esito  diciamo  così
            opposto,  è  lecito ampliare l'ambito  cronologico,  studiando  le
            fonti  copte,  perché  la conservatività tipica  delle  tradizioni
            provinciali e periferiche può restituirci punti di vista validi in
            situazioni di alcuni decenni più antiche.



            Ambienti monastici egiziani.

                  Varrà  dunque  la  pena  di presentare  prima  di  tutto  il
            panorama  dell'ambiente manostico egiziano intorno al  IV  secolo,
            tenendo conto insieme della documentazione copta e greca. Non sarà
            il caso di discutere tale documentazione,  che abbiamo studiato in
            nostri recenti contributi sull'argomento,  ai quali rimandiamo per
            una più ampia disamina (Orlandi 1984 (1) (2)).

            Vi è prima di tutto l'ambiente del Nord,  quello forse più antico,
            comunque il più noto dalle fonti "internazionali".  Esso comprende


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            gli  insediamenti  desertici  ad Occidente del  Delta,  di  Sceti,
            Nitria e Kellia,  ed anche quelli orientali che si richiamavano ad
            Antonio.  Esso è caratterizzato dai suoi più stretti rapporti  con
            Alessandria,  e  dunque con il Patriarcato ed i suoi  orientamenti
            teologici,  le  sue  necessità di politica ecclesiastica,  i  suoi
            contatti con le altre regioni della Cristianità (White 1933).

            Qui  troviamo infatti le più sofisticate  esigenze  culturali,  ed
            anche (il che può essere appunto parallelo) anti-culturali,  di un
            Macario,  di un Evagrio, di uno stesso Antonio, di Isaia, forse di
            Ieraca,  più tardi di Arsenio.  E qui troviamo un minore interesse
            (almeno  fino  al  V  secolo)  alla  regolamentazione  della  vita
            monastica, che però non significa una radicale individualizzazione
            del  movimento,  tanto  che la vita sarà comunque  in  gran  parte
            comunitaria,  ma liberamente tale.  Per questo,  fra l'altro,  non
            bisognerebbe   più   ispirarsi   alla  brutale   suddivisione   di
            monachesimo  anacoretico  e  cenobitico,  che ancora  è  parte  di
            odierne ricostruzioni storiche.

            Vi  è quindi un ambiente medio-egiziano,  situabile nella  regione
            della  Valle del Nilo a Sud del Faium e fino alla Tebaide  vera  e
            propria, intorno ai capoluoghi di Shmun e di Siout. Esso è il meno
            conosciuto,   ed   infatti  si  può  caratterizzare  come  il  più
            tipicamente copto,  o meglio interiormente egiziano, nel senso che
            esprime  una spiritualità ed una mentalità separate  dall'ambiente
            internazionale,  anche  alessandrino,  anche se  probabilmente  di
            espressione piuttosto greca che copta, fino al V secolo.

            Ad  ogni  modo le fonti che lo attestano sono oggi quasi tutte  in
            lingua   copta   (talora   per   traduzione,   però),   e   talora
            prevalentemente archeologico-epigrafiche.  I personaggi più famosi
            sono Apollo di Bauit;  Paolo di Tamma; Ouanofre (Onofrio); Aphu di
            Ossirinco.  E' estremamente interessante come la loro cultura, per
            quanto si può capire,  sia di tendenza "asiatica" (cioè di esegesi
            tendenzialmente   materialistica)   e  dunque  opposta  a   quella
            prevalente  ad Alessandria.  Il tipo di  organizzazione  monastica
            appare  invece più simile a quella del Nord,  cioè tendenzialmente
            libera.  Appaiono però delle raccolte di regolamenti (come  quella
            di Paolo di Tamma;  inedita), che forse attestano un approssimarsi
            alla tendenza cenobitica tipica del Sud.

            Abbiamo finalmente un ambiente del Sud, nella regione compresa fra
            la  città  di  Shmin  e  la  prima  cataratta,  con  Siene  "porta
            dell'Egitto"  e  l'isola  di File col suo  famoso  santuario.  Qui
            prosperò  prima  di tutto il monachesimo  pacomiano,  troppo  noto
            perché   debba  o  possa  essere  in  questa  sede  caratterizzato
            (Veilleux 1980-82).  Preme tuttavia sottolinearne la vicinanza, di
            spirito  e anche di azione,  con l'ambiente di Alessandria  e  del
            Patriarcato,   e   attraverso   esso  con  la  cultura   cristiana
            "internazionale".

            Segno  di  ciò  è  il fatto che le testimonianze  che  ne  abbiamo
            (pensiamo  soprattutto  alle Vite di Pacomio e  dei  suoi  diretti
            successori;  ma anche a tante altre sparse in tutta la letteratura
            patristica  orientale  ed  occidentale) sono in  lingua  greca  (e


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            latina)  come  e forse più che in lingua copta.  Ma si deve  anche
            tener  conto  del  fatto  che i pacomiani,  dopo  il  V  secolo  e
            segnatamente  dopo  Calcedonia,  cadono  in un  certo  oblio  (Van
            Cauwenbergh 1914,  p.  153-9), che noi riteniamo dovuto proprio al
            loro  diretto coinvolgimento con il Cristianesimo  internazionale,
            che   impedì  di  coltivare  caratteri  specificamente   egiziani,
            necessari poi alla sopravvivenza in una Chiesa che si staccava dal
            resto della Cristianità.

            Sono  questi  invece  i  caratteri  spiccati   dell'organizzazione
            monastica che era destinata a raccoglierne l'eredità,  cioè quella
            fondata  e  diretta con mano ferma e vigile da  Shenute  (Leipoldt
            1903). La confusione fra monachesimo pacomiano e shenutiano sembra
            alla  base di un fraintendimento di fondo di quanto successe fra V
            e  VI secolo;  occorre invece aver ben chiaro che,  se Shenute  si
            ispirò  all'opera del grande Pacomio,  divenuto  ormai  indiscusso
            padre  di  ogni cenobita,  mantenne la sua  organizzazione  sempre
            distinta, e direi culturalmente diversificata da quella pacomiana.

            Shenute accettò l'idea di una regola sull'esempio di  Pacomio,  ma                                          ______
            ne  fece una sua;  e non sembra si sia mai considerato soggetto  o
            comunque  spiritualmente tributario degli archimandriti  pacomiani
            che regnavano nel monastero-capitale di Pbau. Non sarà fuori luogo
            notare come la stessa terminologia,  diciamo così,  "tecnica", con
            cui  le due differenti comunità si esprimono,  differisce in  modo
            coerente   e   specifico.   I  pacomiani  designano  Pacomio   per
            antonomasia con "apa", senza il nome; gli scenutiani usano "padre"
            o "profeta" come appellativo del nome.  La comunità pacomiana è la
            "koinonia"; quella scenutiana la "synagoge".

            Non   dimentichiamo,   per   finire,   l'interessante  e   isolata
            testimonianza relativa ai vescovi-monaci di File nel IV-V  secolo,
            che    rappresentarono    un'esperienza    particolare,     dovuta
            probabilmente  all'ambiente  di frontiera in cui si  trovarono  ad
            operare.



            Il lavoro nel monachesimo egiziano.

                  Abbiamo  detto  che  le  fonti  copte,   che  prenderemo  in
            considerazione   più  sotto,   vanno  viste  nel  complesso  della
            situazione  storica e delle fonti nelle altre  lingue.  Il  lavoro
            critico  precedente  al nostro,  condotto quasi esclusivamente  su
            tali fonti, ci permette di riassumere la situazione, senza bisogno
            di analisi minute,  per poi confrontare i dati che le fonti  copte
            ci forniscono.

            Le   opere   che  terremo  presenti,   perché  ci  sono   sembrate
            maggiormente impegnate sull'argomento del nostro contributo, sono:
            DOERRIES  1931 (forse il primo studio  particolareggiato);  HEUSSI
            1936 (che ne riprende molti concetti);  NAGEL 1966 (che amplia  in
            parte   la   visuale);   GUILLAUMONT   1979  (che   rinfresca   la
            problematica); finalmente il recente lavoro del QUACQUARELLI 1982.



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            Che  la  maggior  parte degli  ambienti  monastici  ammettesse  la
            positività del lavoro è ormai un elemento da considerare assodato;
            e  il  saggio in cui più si insiste su ciò è senza  dubbio  quello
            ampio  del Quacquarelli.  Ma non si deve trascurare il fatto  che,
            soprattutto all'origine,  ma forse ancora in epoca più tarda,  nel
            tardo  IV  secolo  e  nel  V,  l'apprezzamento  verso  un'attività
            lavorativa  di  chi  si dedicava alla vita più o  meno  solitaria,
            comunque  fuori  dalle  preoccupazioni  mondane,  variava  fra  un
            rifiuto   quasi  totale,   un'accettazione   rassegnata,   e   una
            cosiderazione  positiva nella sostanza vera e propria del  lavoro.
            Questa  varietà di atteggiamenti è messa concordemente in luce  da
            Doerries, Heussi e Guillaumont.

            I motivi del rifiuto del lavoro sono immediatamente comprensibili:
            secondo  questa  tesi,  il  lavoro  faceva  parte  delle  attività
            tipicamente mondane e corporali, che l'asceta (e quindi il monaco)
            si proponevano appunto di fuggire.

            I motivi della considerazione positiva del lavoro sono altrettanto
            comprensibili,  ma  varii;  e  si  possono riassumere  in  quattro
            posizioni,  che  si trovano variamente intrecciate  nella  diverse
            fonti a disposizione.

            Prima di tutto sembra che esso sia stato raccomandato come rimedio
            al tipico male dell'"akedia",  specie di rimbambimento sconfortato
            o  al  contrario di inquietudine irrazionale,  di  cui  facilmente
            erano  preda  i  solitari del deserto.  Doerries e  Nagel  mettono
            soprattutto in rilievo questa posizione.

            In  secondo luogo il lavoro consentiva al monaco di provvedere  al
            proprio   sostentamento  senza  ricorrere  all'elemosina   altrui.
            L'elemosina  doveva  essere un'opera buona da  riservare  ai  veri
            bisognosi  involontari,  non a chi volontariamente si privava  dei
            beni  mondani.  Questa posizione è messa in rilievo  da  Doerries,
            Nagel, Heussi, Guillaumont, concordemente.

            In   terzo  luogo  il  lavoro  consentiva  a  sua  volta  di  fare
            l'elemosina,  acquistando  ulteriori meriti oltre a  quelli  della
            vita  ascetica  in  se  stessa.   E'  quanto  rilevano,  di  nuovo
            concordemente, Doerries, Heussi, Nagel, Guillaumont.

            Finalmente c'era un modo più sottile di apprezzare il lavoro, cioè
            quello  di vederne un mezzo per mettere a frutto completamente  le
            capacità   della  persona  del  monaco.   Egli  sviluppava   nella
            solitudine ascetica i doni spirituali; e contemporaneamente poteva
            col  lavoro  sviluppare quelli corporali.  Sembra che  solo  Nagel
            abbia dato rilievo a questa posizione.



            Per  quanto  riguarda  la  situazione  organizzativa  del  lavoro,
            l'ambiente  privilegiato dalla critica è quello  pacomiano,  assai
            più ricco di documentazione rispetto agli altri.  Di tale ambiente
            ci  ha  parlato Pericoli Ridolfini,  e del resto ci torneremo  noi
            stessi.


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            Per  il resto,  poiché gli Apophthegmata sono fonte su  ciò  assai                                       _____________
            reticente,  gli studiosi non hanno molto approfondito l'argomento.
            Fortunatamente,  per l'ambiente del Nord (Nitria,  Sceti,  Kellia)
            abbiamo  l'importante lavoro del White,  il quale mette in rilievo
            come anche in un tipo di monachesimo tendenzialmente  anacoretico,
            come quello, il lavoro aveva un'organizzazione accurata che finiva
            per assomigliare a quella pacomiana.

            E'  vero  che,  dovendo  il  lavoro essere di  tipo  semplice  per
            permettere  la  contemporanea meditazione,  il  tipo  di  attività
            principale  era  quella di intrecciare cesti con foglie di  palma,
            oppure cordami.  Ma era previsto non solo lo scambio sul posto dei
            prodotti così ottenuti, ma anche la vendita al mercato.

            C'erano  poi  altri  tipi di lavoro,  come  la  collaborazione  al
            raccolto agricolo,  che presupponeva contatti col mondo esterno, e
            così l'attività libraria,  di scrittorio. Anche la coltivazione di
            orti era permessa e ampiamente esercitata.

            Finalmente  è  interessante come anche in  questo  ambiente  fosse
            stata  istituita fin dai primi tempi la figura  dell'economo,  che
            gestiva  le  finanze  di  una  comunità.  Evidentemente  la  mania
            egiziana  per  la minuta e precisa amministrazione non poteva  non
            influenzare anche la vita degli anacoreti.
            Il lavoro nelle fonti monastiche copte.

                  E' dunque possibile a questo punto passare all'analisi della
            documentazione  in copto,  per vedere quali analogie e  differenze
            essa  ci  mostra,  rispetto a quella che è stata  più  normalmente
            tenuta presente dagli studiosi precedenti.

            Diremo  subito  che,  per  quanto  riguarda  l'ambiente  del  Nord
            (Nitria,  Sceti e Kellia;  ed anche per Antonio) non ci sono fonti
            esclusivamente in copto,  e dunque nulla di nuovo vi è da dire. Le
            fonti  copte sono semplicemente traduzioni di opere note in  altre
            lingue,  come  gli Apophthegmata Patru o la Vita Antonii e le  sue
            Lettere.

            Assai  differente  è  la situazione per quanto riguarda  il  Medio
            Egitto, cioè la zona che abbiamo definito come estendentesi fra il
            Faium  e Siout.  Per questo ambiente abbiamo quasi  esclusivamente
            fonti  in  copto,  tanto che esso non è stato  mai  individuato  e
            proposto   come   in  qualche  modo  indipendente  dalla   critica
            precedente.

            PAOLO DI TAMMA

            Il nome che ci sembra più importante,  sotto questo profilo, è per
            l'appunto  il  nome  di un anacoreta che  difficilmente  si  trova
            menzionato nella letteratura sull'argomento,  e la cui personalità
            deve essere riscoperta e valutata. Purtroppo la sua vita, che pure
            è  pervenuta  in copto (parzialmente) e in arabo è frutto  di  una
            redazione   tardiva,   riempita   di  avvenimenti  incredibili   e
            romanzeschi.  Ma il fatto che di lui rimangano anche frammenti non


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            indifferenti  delle  opere originali testimonia di per sè  la  sua
            importanza.

            Per  quanto dunque si può vedere dai testi conservati di Paolo  di
            Tamma  (che sono ancora inediti;  li citiamo dai manoscritti),  il
            concetto  per  lui fondamentale,  che stava alla  base  della  sua
            interpretazione  del monachesimo,  è quello della  solitudine,  in
            particolare  della  solitudine della cella.  Ma alla solitudine  è
            legato  immediatamente  il concetto della  povertà,  che,  se  ben
            vediamo,  comprende l'astensione,  per quanto più fosse possibile,
            dal lavoro.

            Una  sua breve lettera inizia infatti con queste  parole: "Il  tuo
            poco di pane e il tuo poco d'acqua prendili, mio caro, sopportando
            la tua residenza in povertà".

            In  un lungo testo relativo appunto alla cella,  abbiamo prima  di
            tutto  (e  spesso  ripetuto) il chiarimento della  essenzialità  e
            quasi  della totalità della cella per la vita del  monaco: "Figlio
            mio,  obbedisci a Dio e osserva i suoi comandamenti, e resta nella
            tua  residenza essendo dolce per te da te stesso.  La cella  resta
            nel  tuo cuore mentre cerchi la sua grazia e la  sofferenza  della
            tua cella verrà con te da Dio".

            Ma  presto  al  concetto della  solitudine è  unito  quello  della
            "miseria",  intesa  probabilmente anche come situazione materiale:
            "Ora  dunque,  o misero,  adora Dio con tutto il tuo cuore  e  con
            tutti  i  tuoi  pensieri  e con tutta la tua forza e  con  le  tue
            parole,  e  poni  il tuo cuore nella tua residenza come  anche  in
            Dio".

            E  poco  dopo: "E'  il vanto del povero monaco  il  deserto  e  la
            saggezza  nell'umiltà.  Il povero dunque che è umile sarà chiamato
            "Iosedech" dai profeti. Infatti il nostro Signore è molto ricco ma
            si  fece  povero  per noi".  (L'allusione al nome  di  Iosedech  è
            abbastanza  straordinaria,  e rimane per noi non  ben  spiegabile.
            Costui  è nominato soltanto in I Chr.  5.41 (ovv.  6.15),  dove si
            dice  che egli "se ne andò (da Gerusalemme) quando  Jahve  deportò
            Giuda e Gerusalemme per mezzo di Nabucodonosor".  - Forse Paolo di
            Tamma  intende  sottolineare il ritiro di Iosedek,  anche  per  la
            composizione del nome: Iao - Sadaka = dividere, separare).

            Probabilmente  il  lavoro e dunque un rapporto con gli uomini  "di
            fuori"   è  visto  come  fonte  di  turbamento:  "Che  il   legame
            dell'esistenza,  mio caro,  non ti trattenga .  .  .  Non prestare
            orecchio  ad  alcuno che parla con te in  modo  agitato,  cosicché
            anche tu ti agiti e lasci la tua cella".

            "Beato  un povero misero che si fa anacoreta.  Egli è compagno  di
            Dio come Abramo,  poiché il Signore non farà nulla senza rivelarlo
            ai suoi servi i profeti.  ... Sii dunque saggio restando nella tua
            cella,  edificando la tua anima, mentre la tua gloria sta con te e
            l'umiltà sta con te,  mentre il timore di Dio ti circonda giorno e
            notte, mentre la cura del tuo corpo sta in lui". (E' possibile che
            l'accento dato al fatto di lasciare la cura del corpo a Dio alluda


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            alla  posizione  che  tendeva a rifiutare il  lavoro  manuale  del
            monaco.)

            "Se dunque rivestirai la povertà in questo mondo e l'umiltà, sarai
            con il Figlio di Dio nel suo regno" - E si noti che  alcuni  degli
            anacoreti  menzionati nella c.d.  Vita Onophrii sono appunto  nudi
            completamente,  dunque  rifiutando  anche  il  lavoro  che  poteva
            servire  a  procurare  i vestiti,  cosa che invece stava  molto  a
            cuore, come vedremo, nell'ambiente pacomiano e scenutiano.

            E  di  nuovo  l'accento sull'evitare  ogni  turbamento:  "Non  far
            entrare  parole  di uomini nella cella,  nè confusione nè  cattivi
            pensieri di demoni introducili in essa.  E più sotto:  Ritirati  a
            causa dell'uomo.  Infatti i santi e il Signore nostro morirono per
            opera  degli uomini.  Ed io ho molto sofferto a causa della guerra
            dell'uomo, più che della guerra del deserto".

            "Hai  udito dunque la lode del povero che sta umiliato  nella  sua
            cella".

            Solitudine,   povertà,   umiliazione,  meditazione,  sono  quattro
            caposaldi  della vita anacoretica,  che probabilmente escludono il
            lavoro  in  senso,  appena  appena  organizzato,  dalle  possibili
            attività dell'anacoreta.  Si ricordi che sia al Nord,  sia al Sud,
            il  lavoro  del monaco prevede anche uno scambio  o  commercio  di
            oggetti con il mondo circostante.

            HISTORIA MONACHORUM - VITA ONOPHRII

            Passiamo ora ad un testo che è ben noto in greco (BHG 1378-1382) e
            in  latino  ,  ma soltanto parzialmente e sotto il punto di  vista
            agiografico,  come  pia storia della vita dell'anacoreta  Onofrio.
            Nella  redazione  copta  (Budge  1914,  p.  205-24),  cioè  quella
            completa,  esso  risulta  invece un resconto ampio e  interessante
            dell'ambiente monastico medio egiziano.

            Non sarà un caso che proprio questa testimonianza del  monachesimo
            medio-egiziano  ci parli della problematica intorno ai due tipi di
            vita monastica:

            P.  40 (del ms.) (racconta lo stesso Onofrio): "In questo convento
            (il  convento  di Erete presso Shmun) vivevamo  tutti  insieme,  e
            mangiavamo  insieme,  e la pace del Signore era in mezzo a noi che
            vivevamo in contemplazione glorificando il Signore.

            Io  ero un fratello giovane e apprendevo la dottrina  della  pietà
            divina  da alcuni grandi santi.  E li ascoltai molte volte parlare
            della  vita di Elia di Tisbith,  di come fosse tanto  potente  nel
            Signore,  restando nel deserto. E che anche Giovanni Battista, che
            nessun  nato da donna superò in grandezza,  abitò nel deserto fino
            al giorno della sua manifestazione in Israele.

            Dunque dissi loro: Padri miei, quelli abitano nel deserto sono più
            onorati di voi di fronte a Dio?  Mi risposero:  Sì,  perché noi ci
            vediamo  gli uni con gli altri e ci incontriamo alle synaxeis  con


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            gioia.  Se  abbiamo fame troviamo il cibo preparato  per  noi.  Se
            abbiamo  sete troviamo acqua per bere.  Se siamo deboli i fratelli
            ci  aiutano.  E  se vogliamo cose da mangiare  noi  le  prepariamo
            insieme.

            Quelli invece che sono nel deserto,  dove troveranno tali cose? Se
            avranno fame,  dove troveranno da mangiare?  Da principio infatti,
            quando  si dedicano all'anacoresi,  soffrono per la fame e per  la
            sete  .  .  .  Ma non appena essi apprendono la sopportazione,  la
            compassione  di  Dio  li  tocca ed Egli  manda  il  suo  angelo  a
            servirli. . . .

            Non  hai  udito:  Il Signore non dimenticherà mai  il  povero,  la
            pazienza  del misero non andrà perduta?  E ancora:  Il povero  che
            invoca,   il   Signore  lo  ascoltò  e  lo  liberò  da  tutte   le
            tribolazioni,  perché  il  Signore  dà a ciascuno secondo  il  suo
            cuore.  Benedetto  infatti  colui che fa la volontà di  Dio  sulla
            terra, perché gli angeli sono al suo servizio.

            Anche qui,  come in Paolo di Tamma, la contemplazione di Dio nella
            perfetta  solitudine del deserto sembra escludere ogni altro  tipo
            di  attività,  nella fiducia che sarà Dio stesso a  provvedere  ai
            bisogni  dell'anacoreta.  Si noti infatti che la leggenda tramandò
            che  Onofrio  (come altri anacoreti) si nutriva per mezzo  di  una
            palma,  cresciuta  miracolosamente,  che  gli dava  dodici  frutti
            all'anno, uno per mese.

            L'AMBIENTE PACOMIANO

            Le regole di ambiente pacomiano ci offrono naturalmente l'altro ed
            opposto  aspetto  della considerazione del lavoro presso i  monaci
            egiziani.  Ma prima di esaminare i brani di regole  post-pacomiane
            da  cui  possiamo  trarre  precise  informazioni  sulla  teoria  e
            l'organizzazione  del  lavoro  presso  i  pacomiani,   desideriamo
            attrarre  l'attenzione  su  un  brano  di  un  testo  di  ambiente
            pacomiano,  assai poco noto, che ci parla di un tema relativamente
            trascurato.

            Per  lavoro si è inteso generalmente in questo congresso il lavoro
            produttivo,  col  quale  si creano oggetti o si  interviene  sulla
            natura.  Ma  non meno importante era  nell'antichità,  come  oggi,
            il  lavoro del mercante.  Ecco dunque le parole poste nella  bocca
            dello stesso Horsiesi,  in un dialogo con un diacono alessandrino,
            Timoteo (ed. Crum 1915, p. 70-71).

            TIMOTEO:  Che  dobbiamo  pensare dei mercanti della nostra  città?
            Essi  vivono  del loro commercio.  HORSIESI:  Se  rimangono  nella
            misura  che gli compete,  non faranno peccato,  purché non vi  sia
            giuramento.  Molti  oggi  stanno nei conventi,  e i  mondani  sono
            migliori  di  loro,   perché  non  danneggiano  nessuno  col  loro
            commercio.  Molti  infatti andranno a dare il prezzo di una  merce
            che  è  venduta,  onestamente e  pacificamente.  (Una  volta  che)
            interrogammo  nostro padre Teodoro:  Perché non stai più attento a
            comprare una merce o a venderla? Egli disse: Ciò che dobbiamo dare
            in  carità,  diamolo,  però  come  chi vende e  chi  compra  dirà.


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            Soltanto,  non  invochiamo  il  nome  del  Signore  su  una  merce
            materiale,   che  perirà.   Conviene  infatti  che  osserviamo   i
            comandamenti di Dio;  ed egli ordinò di fare la carità,  ma ordinò
            anche:  che le vostre parole siano: sì sì e no no. TIMOTEO: Qual è
            la  differenza fra ricco e povero,  quando vanno a comprare da  un
            venditore?  HORSIESI:  Il  vendere  con  eguaglianza.  Infatti  il
            Signore diede la mercede agli operai con eguaglianza.

            Propongo  questo  testo,  lasciando aperte le molte questioni  che
            esso  pone.  Ma  si  vede che esso può  aprire  sul  comportamento
            "economico" dei pacomiani delle prospettive forse  inedite.  Molto
            più  normale  è  il quadro che troviamo in un lungo  testo  copto,
            rivendicato  ad  Horsiesi dal Lefort (1956),  il  cui  genere  può
            essere giustamente definito "Regole". I passi per noi interessanti
            sono i seguenti.

            Pigrizia nella preghiera e nel lavoro (p. 86-7)

            Chi  si alzerà la notte per pregare,  se il suo compagno di  cella
            resta  coricato,  ...  uscirà  fuori dalla porta e  batterà  sulla
            stuoia, affinché il dormiente si levi e preghi. ... Se egli non si
            leva ancora, lo chiamerà per nome... Se, quando egli è sveglio, si
            rifiuta  di  alzarsi  per pregare,  se non è  malato  di  malattia
            mortale...  ed  è  solo  pigro,  la  maledizione  proferita  dalle
            Scritture sul pigro sarà la sua condanna.

            Allo stesso modo, colui che è pigro nelle occupazioni materiali, e
            non lavora con tutte le sue forze per guadagnare con la sua fatica
            il  proprio  cibo  ed  il proprio vestimento e  tutto  ciò  che  è
            necessario al suo corpo... lo si metta alla portineria. Ma se egli
            continuerà  a vivere del lavoro dei suoi fratelli e a vestirsi con
            ciò  che essi hanno radunato,  anche se è giovane e senza peccato,
            ma è pigro,  sarà simile al figlio di un grande e nobile  principe
            di  questo mondo,  i cui fratelli sono nella gloria e nel  piacere
            della  ricchezza  e degli onori...  mentre egli  è  nell'abiezione
            della mendicità. . . .

            Questo  è  il  modo con cui i santi e gli  angeli  guarderanno  il
            pigro:  anche se egli è giusto,  nel luogo della felicità eterna e
            nella gioia del regno dei cieli egli è un mendicante.

            Perciò guardiamoci bene dall'essere pigri: bisogna sì produrre per
            Dio dei frutti fra quelli dello Spirito Santo; ma anche dei frutti
            fra quelli che il corpo ha bisogno.



            Fare bene ciascuno il proprio lavoro (p.88)

            Che  ciascuno  di  noi,  nel timore di Dio,  si  applichi  bene  e
            accuratamente al lavoro che gli è assegnato.

            Gli  economi  prenderanno  cura di tutti gli oggetti di  cui  sono
            responsabili,  per evitare che vadano in rovina; e non devono, per
            negligenza, lasciare bagnare il pane nell'acqua e guastarsi; o per


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            pigrizia preparare della salamoia per due giorni,  mentre  bisogna
            prepararla  giorno  per giorno...  E non devono mettere  in  acqua
            troppi  datteri per far il succo di datteri,  tenendoli per due  o
            tre  giorni tanto che il gusto dei datteri inacidisce.  Non devono
            far bollire più ceci di quanti servono per una settimana...

            Insomma,  noi dobbiamo vegliare su tutto con fede,  perché le cose
            della Koinonia (comunità) non sono cose carnali,  come quelle  del
            mondo. . . .

            I   cuochi,   tutto  ciò  che  cucineranno  per  i  fratelli,   lo
            prepareranno con grande cura nel timor di Dio,  e cuoceranno tutto
            a puntino,  sia sul braciere sia nella pentola.  Veglieranno a non
            bruciare troppa legna, soltanto tre pezzi per focolare, secondo la
            regola.  .  . . Copriranno il fuoco affinché ciò che si metterà in
            pentola,  sia frumento, sia lenticchie, si rammollisca dolcemente,
            dal   momento  che  il  troppo  fuoco  all'inizio   impedisce   di
            rammollirsi bene. . . .

            Quelli  che  vegliano sui malati baderanno ugualmente  a  cucinare
            secondo  i bisogni del malato,  di cui prenderanno cura con grande
            compassione.  Chiunque è designato a tale incombenza, ivi compreso
            chi distribuisce l'acqua e la pompa per i fratelli,  si laverà  le
            mani  prima di attingere l'acqua.  .  .  .  E' anche dovere  degli
            economi  non  lasciar  rovinare per negligenza alcuna  marmitta  o
            altra  pentola,   sul  fuoco,   lasciandola  senz'acqua  o   senza
            rimestare...

            . . .

            Che  ogni  operazione,  piccola o grande,  sia iscritta nel  luogo
            dell'economo,  visibilmente e chiaramente, affinché il nome di Dio
            sia glorificato in tutto per tutte le opere che facciamo. Che esse
            siano  fatte  bene,  in  modo che,  chiunque  le  veda,  ne  siamo
            soddisfatti .  . . l'economo che prepara il mangiare, il superiore
            del convento,  colui che ha cura delle bestie e dei maiali,  chi è
            occupato  nell'agricoltura e ogni altra  occupazione,  secondo  la
            nostra vocazione. . . .

            Il Signore,  parlando a Mosé dal mezzo delle fiamme, e dettandogli
            ciò  che egli avrebbe stabilito come legge per i figlio d'Israele,
            ...  diede loro ordini su tutto,  perfino su una bestia ferita  da
            una fiera o sventrata da un toro. Vedete dunque che davvero saremo
            ritenuti  responsabili di tutto.  Non siate negligenti  in  nulla,
            perché  le opere dell'economato sono ordini venuti da Dio...

            La mietitura (p. 91)

            Il  superiore del convento designerà l'uomo che marcerà alla testa
            dei   fratelli  incaricati  della  mietitura.   Costui   avrà   la
            responsabilità  di  mettere i fratelli in cammino per il lavoro  e
            dare il segno della fine; e anche del luogo dove fare la mietitura
            ... con il consenso del superiore. . . .

            Che nessuno volti la schiena al suo vicino per lasciarlo  indietro


                                        11








            nella  mietitura;  al contrario,  finché è possibile,  teniamo  il
            nostro fratello sulla stessa linea.  Non cadiamo nella vanagloria,
            perché  è  Dio che ci dà la forza;  e non disprezziamo  il  nostro
            prossimo.




            SHENUTE

            Prenderemo ora in considerazione alcuni passi nei quali Shenute si
            occupa  del  problema  del lavoro,  soprattutto nei  riguardi  dei
            monaci  del  suo monastero.  Questi  passi  sono  sufficientemente
            chiari dal punto di vista che ci riguarda,  e non hanno bisogno di
            commenti.  In  essi  si  accetta  pienamente  l'atteggiamento  dei
            pacomiani,  non solo benevolo verso tale attività,  ma anche volto
            ad  imporla  come necessaria e a regolamentarla come  fondamentale
            (accanto alla preghiera) nel quadro della vita del monastero.

            L'ozio è il padre dei vizi (ed. Leipoldt 1908-13, III p. 110-1, n.
            37):

            Ancora,  occorre e conviene che l'uomo lavori con le sue mani. Chi
            infatti  si  esamini,  troverà (purché faccia attenzione) che  noi
            spesso,  quando non abbiamo nulla per le mani, ciascuno a suo modo
            o  scrive per terra con le dita o altre cose;  o mette  cocci  uno
            sull'altro e poi li fa cadere come fanno i bambini che giocano;  o
            si accarezza il capo o la barba, o si tocca le vesti o le unghie o
            gli  occhi  o altro,  senza alcuna necessità,  ma per  un  impulso
            vacuo. (Esempi...).

            Questo  è l'aspetto dell'animo di molti oziosi,  inani alle  opere
            della  salvezza  e  della vita,  pronti a commettere e  portare  a
            termine  ogni  tipo di peccato.  Vedete invece  quanta  attenzione
            faccia  colui che fa qualche cosa,  perfino chi scrive  un  libro,
            perché molto si cura di ciò che fa a causa dell'utilità che riceve
            dalla sua opera. Questa è la condizione di tutti gli uomini pii, i
            cui  animi  sono dediti alla pratica della  pietà,  sempre  memori
            del loro andare nelle mani di Dio.



            Sul lavoro dei monaci per il proprio sostentamento (ibid.,  III p.
            92-94, n. 30):

            Vi dirò di ciò che mi chiesero dei vescovi ad Antinoe. Dissero: E'
            giusto  ciò  che fa questo genere di monaci,  o anche  altri,  che
            dicono:  noi preghiamo; e (perciò) non lavorano? - Inoltre ciò che
            chiesero   certi   presbiteri  timorosi  di  Dio   e   giustamente
            preoccupati dei beni che sono portati alle chiese: E' lecito che i
            responsabili (delle chiese) li spendano solo per se stessi, o no?

            Risposi: Queste due questioni che mi chiedete non sono difficili a
            risolversi per chi voglia (davvero) l'utilità della propria anima.
            L'apostolo è uguale ieri,  oggi, e sempre; egli dice: chi non vuol


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            lavorare, non mangi. Dottrina invero perfetta.

            Dice anche:  Quelli che lavorano ai templi mangiano delle cose dei
            templi.  Quelli  che  si occupano dei  santuari  (thysiasterion  =
            altare)  dividono fra sè e l'altare.  - L'altare e la chiesa  sono
            una cosa sola.  Udite (il verbo):  dividere.  Dunque se gli uomini
            che  vogliono prendere un pane o parte di qualche altra cosa  sono
            sottoposti  a  lasciare  all'altare  la sua parte  di  ogni  cosa,
            affinché  i proprietari - che sono le vedove gli orfani  i  poveri
            gli  zoppi  i pellegrini e tutti gli altri di cui è scritto  - non
            gemano per ciò che gli viene tolto;  e (d'altra parte, se,) quando
            noi pecchiamo fra noi, non è forse vero che pecchiamo anche contro
            l'altare,  e gli facciamo torto? Allora deruberemo anche ciò che è
            di quelli,  come rubiamo le nostre cose a vicenda, anche se daremo
            ad esso (all'altare?) alcune delle nostre cose? . . .

            Dirò  soprattutto che quegli uomini pigri di tal fatta,  come  non
            lavorano  per  mangiare  il  loro  pane,  così  neppure  fanno  le
            preghiere. (... Di nuovo esempio dell'apostolo...)

            Tutti devono lavorare (ibid., IV p. 101, n. 71):

            Ad  ogni  lavoro  che  sarà fatto  in  questi  monasteri,  sempre,
            dovranno  partecipare anche i capi,  e nessuno dovrà  togliere  il
            proprio collo dal giogo valendosi del titolo che porta,  lasciando
            che gli inferiori fatichino,  vecchi e giovani.  Allo stesso modo,
            coloro  che vivono al villaggio,  salvo che non siano malati,  non
            potranno essere solo uomini di comando, ma anche di lavoro.

            Lavoro e preghiera in comune (ibid., IV p. 109, n. 71):

            Sempre,  in queste comunità, i fratelli che si radunano insieme si
            comportino  in  questo modo.  Siano essi 20 o 30 o 40,  o  più,  o
            addirittura essendo tutti insieme,  quando si riuniranno nel luogo
            di lavoro,  prima di lavorare pregheranno una volta.  E quando  si
            appresseranno alla pausa, pregheranno una volta. Così dovrà essere
            ogni giorno,  sia che seghino dei giunchi, sia che prendano foglie
            di  palma,  sia che riempiano il posto destinato alla  macerazione
            dei giunghi per intrecciarli, o altri simili lavori.

            Ed  anche le preghiere che faranno nelle loro case per conto loro,
            sia  d'inverno  sia  d'estate,  le faranno  lavorando  a  qualcosa
            dovunque siano.

            L'orario di lavoro (ibid. IV p. 110, n. 71):

            Nelle  nostre  comunità,  chiunque faccia qualcosa di diverso  dal
            normale  lavoro manuale - p.es.  costruire una chiesetta  o  altre
            cose  simili  - faranno sempre in modo da interrompere  il  lavoro
            all'ora sesta.  E non dovranno decidere: Per continuare a lavorare
            mangeremo nel pomeriggio,  magari il doppio.  E' questa infatti la
            regola seguita - anche se l'abbiamo poi trascurata - per costruire
            questi  templi e la casa di Cristo.  E finché vivrò starò  attento
            all'orario  per costruire e per non costruire,  per mangiare e per
            non mangiare, per cessare il lavoro o continuarlo. . . .


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            E che nessuno dica:  Mangeremo (di più) per lavorare; o diminuisca
            l'opera non lavorando,  per mangiare.  E il tempo di  interrompere
            questo  tipo di lavoro,  sia il seguente.  D'estate,  alla sesta o
            alla  quinta  ora  - e se farà troppo  caldo,  nessuno  mangerà  a
            mezzogiorno,  nè ozierà nella sua dimora;  e se vi è una pausa, si
            occuperà  delle  sue  piccole cose nella  sua  dimora.  D'inverno,
            faranno una breve pausa fra l'inizio e la fine del lavoro.

            La quantità di lavoro (ibid., IV p. 159, n. 77):

            Quando  i fratelli della nostra comunità saranno dispersi in  vari
            luoghi  per  lavorare,  p.es.  a raccogliere canne o cose  simili,
            nessuno si dia troppo zelo per sopravanzare i compagni, come fanno
            gli  uomini  mondani,  che  gareggiano  per  vanteria.  Anzi,  chi
            potrebbe  fare  l'opera  di due o anche  di  cinque  uomini,  badi
            di fare l'opera di un solo, affinché lavori veramente solo a causa
            di Dio.  Ma d'altra parte non dovrà essere pigro,  ma misurerà  le
            sue forze, sapendo che ciò che farà è quello che troverà.

            La specializzazione (ibid., IV p. 163, n. 77):

            Nessuno  di  coloro  che entrano nella nostra comunità  per  farsi
            monaco  potrà  dire:  Io farò qui o altrove lo stesso  lavoro  che
            facevo a casa mia.  Il motivo infatti per cui ognuno è venuto qui,
            è mostrato solo dalle sacre scritture o dai libri scritti da  noi.
            Se  dunque qualcuno non vorrà fare alcun lavoro se non quello  che
            esercitava prima a casa sua e nel quale è pratico, gli si dirà: Se
            sei  venuto qui per esercitare un certo mestiere e non a curare la
            tua salvezza,  ecco, il mestiere conviene solo al luogo da cui sei
            venuto.  E si aggiungerà:  Se non vorrai lavorare se non in quello
            che hai imparato a casa tua,  chi potrà credere che tu sei  pronto
            ad  abbandonare  le  tue occupazioni  secolari,  la  menzogna,  la
            libidine, e tutti gli altri vizi...

            La stessa cosa vale per coloro che hanno imparato un mestiere dopo
            che sono entrati qui;  e per coloro che vengono trasferiti da  uno
            all'altro  monastero.  Nessuno  infatti deve entrare nella  nostra
            comunità  per una casa o un posto o un'occupazione,  ma tutti  per
            far  penitenza  dei  nostri peccati,  e  se  siamo  entrati  senza
            peccati, per cercare di evitare di farne.


            Sulla comunità dei beni (ibid., IV p. 89, n. 67):

            In ogni cosa,  quelli che stanno nella nostra comunità, diano agli
            altri tutto quello di cui hanno bisogno per timore di Gesù e senza
            alcun desiderio di possedere più degli altri.  E colui che,  anche
            essendo un superiore,  prenderà una cosa qualsiasi in suo possesso
            esclusivo,  fosse  anche dell'erba medica (?),  dicendo:  E'  mia;
            costui sarà nemico alla nostra comunità.

            (ibid,  IV  p.  111,  n.  72):  ...  e tutte le loro cose  saranno
            depositate presso di loro. Badate bene che ho detto "depositate" e
            non "saranno di essi,  o in loro potestà"!  Dire ciò sarebbe turpe


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            ed è illecito il farlo. Le cose infatti sono di proprietà di Gesù,
            senza  la  più  piccola  eccezione,   riunite  nel  vincolo  della
            fratellanza.

            (ibid., IV p. 165, n. 77): Tutti gli utensili e i materiali di cui
            abbia  bisogno  chiunque  per  qualunque  lavoro,   senza  nessuna
            eccezione,  dovranno  essere richiesti dal preposito della casa in
            cui si esercita il lavoro.




            HISTORIA MONACHORUM APUD SYENAS

            Ci rimane da vedere solo un testo, relativo ad un ambiente situato
            nel  più profondo Sud,  intorno a Siene e all'isola di  File.  Qui
            ritroviamo  di  nuovo un genere di monachesimo solitario,  ma  non
            spinto  all'estremo.  Gli  anacoreti  sembrano  vivere  a  piccoli
            gruppi, da due a quattro, e, cosa per noi importante, coltivano il
            lavoro, come i loro colleghi del Nord.

            Dice  infatti  l'Historia  monachorum  detta  Vita  Aronis  (trad.                             ____________________         ____________
            Orlandi 1984(1),  p.  77):  "Incontrammo un santo vecchio di  nome
            Zaccheo,  invecchiato nell'anacoresi,  grande asceta. Ed altri due
            fratelli  vivevano presso di lui essendo suoi discepoli.  Il  nome
            dell'uno era Serapammon ... egli esercitava questo tipo di carità,
            che se un uomo veniva a cercare un prodotto manuale da lui,  prima
            si rivolgeva ai fratelli e diceva loro: Chi ha un prodotto manuale
            lo porti da me che glielo pagherò (...lacuna)".

            Si  vede  dunque  che  in questo  caso  è  testimoniata  non  solo
            l'attività  lavorativa  dei  monaci,  ma anche  un  certo  piccolo
            commercio, come del resto era usuale altrove. Maggiori particolari
            non ne troviamo.























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